I primi cinesi a Milano

E’ nella Milano degli anni trenta che un primo nucleo di immigrati, provenienti da Qingtian, si insediò nella via Canonica, in un quartiere allora appena "fuori porta", popolare, dove gli affitti bassi e numerose botteghe favorivano la concentrazione di un'eterogenea popolazione di lavoratori immigrati dalla campagna padana.

I primi cinesi giunsero a Milano alla fine di percorsi migratori individuali tortuosi, dopo aver girato l'Europa come commercianti ambulanti. Inizialmente il commercio ambulante prevalse su ogni altra attività: si vendevano ninnoli, catenine e altri oggettini.

Animati dalla vocazione imprenditoriale che ancora oggi caratterizza gli immigrati cinesi provenienti dallo Zhejiang meridionale, i membri di questo primo gruppo concepivano il lavoro ambulante solo come prima tappa del loro percorso sociale. Ci fu chi emerse e coordinò il lavoro ambulante degli altri, chi riuscì a mettere insieme, spesso grazie al prestito sulla fiducia, un piccolo capitale e ad affittare una piccola bottega da adibire a laboratorio di pelletteria. In questo senso la comunità di Milano sembrava essere simile a quella di Parigi: proprio nel periodo in cui in Francia i cinesi dell'area di Wenzhou cominciavano ad inserirsi nell'artigianato pellettiero, nel quartiere milanese Canonica-Sarpi si aprivano i primi laboratori.

Il classico processo "parente-chiama-parente", l'afflusso di nuovi immigrati da Olanda e Francia o dalla Cina rafforzò il nucleo originario e lo rese meno omogeneo. Oltre ai cinesi provenienti dal distretto Qingtian, che restarono comunque maggioritari fino alla fine degli anni settanta, aumentarono le presenze di cinesi "cittadini" di Wenzhou e di "campagnoli" provenienti dal distretto di Wencheng.



Le prime attività dei cinesi a Milano
Il commercio ambulante, "primo gradino" di una carriera migratoria che mirava inseguito alla proprietà di una propria bottega e ad una certa solidità economica, diventò sempre di più commercio di cravatte di seta.

Nella Milano del 1938 lo stereotipo del cinese venditore di cravatte ("una lila una clavatta") entrò nell'immaginario dei nostri nonni. La piccola comunità lavorava sodo e guadagnava dignitosamente.

Inizialmente poco integrati, i primi immigrati si riunivano spesso attorno al tavolo di gioco dove a majiang (mah-jong) "ridistribuivano" i propri capitali. Tuttavia, stando ai racconti dei vecchi cinesi, non sembra che il gioco abbia minato la fondamentale solidarietà che legava tra loro i membri della comunità: si trattava, invece, per lo più di un momento di ritrovo e, perché no, di un modo per "creare opportunità.



I cinesi decidono di “mettere radici in Italia”
L' aggressione giapponese e lo scoppio della guerra mondiale costrinsero molti cinesi di Milano a fare di necessità virtù e ad adattarsi a una permanenza più lunga sul suolo italiano. Coloro che non ebbero modo di portare con sé la moglie dalla Cina o di farla arrivare prima che il paese divenisse inacessibile decisero di sposare donne italiane.

Era tassativo assicurarsi una discendenza, e i primi cinesi non lesinarono sforzi per far sì che i propri figli fossero in grado di integrarsi il più possibile nella società italiana, fungendo efficacemente da interpreti e intermediari fino al ritiro dei genitori dalla vita attiva e poi garantendo loro - grazie al buon inserimento nel contesto di accoglienza - una vecchiaia serena.

Infatti la seconda generazione, scaturita dalla comunità cinese formatasi a Milano negli anni trenta e quaranta, sarebbe spesso cresciuta senza avere alcuna coscienza del proprio retaggio culturale, al punto che è realmente difficile trovare chi di loro parli cinese o sappia riconoscere qualche carattere. I cinesi di quella "prima" seconda generazione - oggi spesso affermati professionisti di mezza età - ricordano al massimo qualche frase del dialetto paterno e hanno magari conservato abitudini alimentari cinesi, ma per il resto sono completamente assimilati.



L’emigrazione dallo Zhejiang ( la Gente di Wenzhou )
L'immigrazione dallo Zhejiang meridionale è certo un fenomeno specifico e non omologabile ad altre correnti della diaspora cinese.

Provenienti da paesi e villaggi sparsi in un'area montuosa che si estende a cavallo dei distretti di Qingtian, Wencheng, Rui'an e Wenzhou-Ouhai, ad occidente della città costiera di Wenzhou, i cinesi del Zhejiang meridionale immigrati in Italia quando desiderano circoscriversi come collettività sovente si autodefiniscono Wenzhouren, "gente di Wenzhou".

Wenzhouren è il termine che viene utilizzato in Europa dagli immigrati cinesi provenienti da altre parti della Cina per indicare gli immigrati giunti dai distretti che circondano tale città, ed è utilizzato anche all'interno del paese per identificare una popolazione che è stata - ed è tuttora - tra i principali protagonisti delle massicce migrazioni interne verificatesi nella Repubblica Popolare nel corso degli ultimi vent’anni, ben nota in tutta la Cina per la sua spiccata vocazione imprenditoriale e per la sue peculiari capacità di inserimento nel tessuto economico delle maggiori città del paese.

Gli abitanti dello Zhejiang hanno fama di essere gente sveglia e turbolenta, abile nel commercio e maestra nell'arte di arrangiarsi e di procacciarsi guanxi, ossia conoscenze e relazioni privilegiate che si intrecciano in reticoli fittissimi di mutua assistenza.

L'abilità della gente di Wenzhou nel fare soldi è presto divenuta proverbiale. In un articolo pubblicato in Cina nel 1993 e riportato in una rivista cinese diffusa anche in Italia si parla dei Wenzhouren come degli "ebrei della Cina" e si nota che "se è vero che i cantonesi sono in grado di mangiare qualunque cosa, i wenzhouesi sono in grado di guadagnare soldi in qualunque affare: se si tratta di far soldi la gente di Wenzhou non manca certo di immaginazione e non si ferma di fronte a niente".

Gli ingredienti che avevano reso possibile il rapidissimo sviluppo economico di Wenzhou - e dell'intera provincia del Zhejiang - nel corso degli anni ottanta erano la tradizione della piccola impresa artigianale familiare.

Un semplice modello di sviluppo produttivo che presuppone alte intensità di lavoro, ridotti capitali iniziali, manodopera a basso costo e una vocazione imprenditoriale che accetta dure condizioni di lavoro. Pur di raggiungere ambite mete di autonomia imprenditoriale, si sacrificano molti anni della propria vita, "mangiando amaro" e lavorando alacremente alla costruzione della propria rete di supporto fiduciario, aspettando l'occasione buona per sganciarsi dalla bottega e mettersi in proprio.

Nella città di Wenzhou, il pianoterra degli edifici, che si affaccia direttamente sulla strada, è generalmente allestito a bottega: i quartieri commerciali della città vecchia presentano notevoli analogie con le zone fitte di laboratori di confezioni e pelletteria del quartiere Canonica-Sarpi a Milano, o di Rue du Temple a Parigi.

Sviluppo della comunità cinese a Milano, negli anni ’80 e ’90.
Gran parte dei cinesi appartenenti al gruppo dei "pionieri" che fondarono i primi insediamenti nelle città europee e italiane nel corso del primo dopoguerra e anche nel decennio successivo al secondo conflitto mondiale, erano originari di zone economicamente depresse e culturalmente arretrate, di matrice contadina, nell'entroterra di Wenzhou.

E’ negli anni ‘60 che in Italia, e particolarmente a Milano, nacquero e si svilupparono i ristoranti cinesi. La gestione dei ristoranti comportava, oltre all'assunzione del personale necessario all'attività di ristorazione vera e propria, anche una serie di attività collaterali che contribuirono anch'esse ad alimentare i nuovi flussi migratori. L'import-export di alimentari si sviluppò in primo luogo in funzione delle necessità di approvvigionamento dei ristoranti, ma portò anche alla creazione dei primi negozi di alimentari e supermercati cinesi. L'arredamento degli interni dei ristoranti, inoltre, richiedeva la mano esperta - e a buon mercato - di falegnami, piastrellisti, operai edili cinesi.

I cinesi di Qingtian e Wencheng, Wenzhou e Rui'an che avevano fratelli, zii, nonni, cugini in Europa si trovarono di fronte ad una improvvisa “chiamata”. Ecco che il parente lontano divenne improvvisamente una risorsa vera: sarebbe stato lui ad organizzare l'espatrio, versando il capitale necessario ad assicurare il rilascio dei documenti e a coprire i costi del viaggio fino in Italia, e ancora lui a creare all'estero le premesse per lo sviluppo del progetto imprenditoriale del parente.

L'aiuto fornito al proprio familiare rappresentava ad un tempo un investimento destinato a dare dividendi immediati - il lavoro gratuito, per un numero di anni variabile da 2 a 4, del parente alle proprie dipendenze - e un investimento a lungo termine. Infatti, donare un'opportunità di realizzazione personale al proprio familiare, significava ampliare la propria rete di supporto, creare le condizioni per la riuscita di un progetto imprenditoriale che, se la persona in questione fosse diventata un imprenditore di successo, non avrebbe mancato di restituire risvolti positivi.

Nel corso della prima metà degli anni ottanta, la nuova ondata di immigrati dall'area di Wenzhou in Olanda e in Francia fu contraddistinta da una rilevante componente clandestina. Il fatto era legato a una duplice difficoltà: da un lato, quella di organizzare il ricongiungimento familiare con i propri parenti nei paesi di immigrazione (pratiche burocratiche lunghe e laboriose, leggi sull'immigrazione rigide o poco chiare ecc.); dall'altro, quella di ottenere i relativi permessi nel paese di partenza.

Ecco perché l'emigrazione clandestina diventò un vero e proprio business, gestito da gruppi di persone che in Cina godevano evidentemente di appoggi e protezioni notevoli e che disponevano di propri "agenti" in tutte le comunità di Wenzhouren presenti in Europa.

L'espansione delle attività commerciali degli immigrati generò anche il fabbisogno di forza lavoro a buon mercato, individuata appunto nei propri familiari. A Milano, negli anni che vanno dal 1983 al 1986, questo fenomeno fu connesso in particolare con il boom della ristorazione. La famiglia, infatti, è sempre stata l'unità fondamentale dell'imprenditoria dei cinesi di Wenzhou, quella che garantisce il massimo impegno e il più alto grado di lealtà e dedizione al lavoro. "Mangiare amaro" - ossia sopportare le dure condizioni di lavoro e di vita collegate con lo sviluppo della propria carriera migratoria - è più facile quando si gode della protezione del proprio clan e si sa che il lavoro del singolo favorirà le opportunità di crescita di tutti i membri del gruppo familiare.

In questa prima fase a emigrare furono generalmente persone giovani e di ambedue i sessi (il rapporto tra i sessi in seno alla comunità cinese di Milano è andato riequilibrandosi fin dagli anni settanta e intorno al ‘2000, tra le popolazioni immigrate, i cinesi sono quella il cui rapporto maschi/femmine è stato maggiormente vicino all'unità. Si trattava di persone in buona parte già sposate e che negli anni successivi, una volta consolidata la propria posizione nel paese di accoglienza, si sarebbero fatte raggiungere dal coniuge e poi dai figli più grandi.

Le persone erano ancora molto vicine, sia per legami di sangue che per valori e aspirazioni, al nucleo originario dei cinesi di Milano - una comunità già allora assai meno coesa che negli anni sessanta, ma che possedeva ancora un apparato solidaristico di protezione e di mutuo aiuto relativamente solido. Cominciò invece a mutare la composizione in termini di distretti di provenienza della comunità milanese.

Poi, negli anni sessanta e settanta la componente maggioritaria della comunità cinese di Milano era costituita dai cinesi di Qingtian, molti dei quali andarono a popolare le piccole comunità cinesi sorte in altre città italiane (Firenze, Roma e Bologna) a seguito dell'espansione delle attività imprenditoriali dei cinesi di Milano.

Solo agli inizi degli anni ottanta si rafforzò molto, sia in termini percentuali che assoluti, la presenza dei cinesi originari del distretto di Wencheng. Questo processo è proseguito fino al punto che i cinesi di più recente immigrazione a Milano sono in misura preponderante originari di questo distretto. Sebbene i distretti di Qingtian e di Wencheng siano contigui e i piccoli villaggi di provenienza della maggior parte degli immigrati abbiano molte caratteristiche in comune, si tratta però di aree che hanno caratteristiche socio-economiche e forse anche culturali e antropologiche diverse.

Qingtian, ancor prima della costruzione del nuovo collegamento autostradale con l'interno della provincia e il resto del paese, ha sempre goduto dei vantaggi economici - ma anche sociali e culturali - connessi con la sua posizione sulle rive del fiume Ou, a lungo la principale via di comunicazione tra il territorio di Lishui, nell'interno, e il vicino porto di Wenzhou.

Wencheng si trova invece in una posizione più isolata, tra montagne più aspre e in un contesto economico meno vivace.

Quasi tutti i cinesi di Wencheng presenti a Milano sono originari della zona di Yuhu, ovvero l'area a nordest del capoluogo di distretto (Daxue) che confina direttamente con Qingtian. In generale i cinesi di Wencheng sono ritenuti dai loro compaesani di altri distretti più "montagnini" e chiusi, hanno livelli medi di scolarizzazione molto bassi e sono portatori di un retaggio culturale tradizionale più rigido di quello dei cinesi di Qingtian e Rui'an, nonché nettamente distinto da quello urbano e disinvolto di Wenzhou.

A partire dagli anni ottanta, i nuovi arrivati sono stati in prevalenza cinesi del distretto di Wencheng provenienti dai villaggi circostanti la zona del piccolo paese di Yuhu (4.500 abitanti ca.) e giunti in Italia secondo la modalità "parente-chiama-parente", in parte in modo regolare, in parte irregolarmente. Molte erano le coppie, spesso con figli in Cina da richiamare successivamente.



La comunità cinese a Milano…”cambia” volto
Gli anni novanta si aprono all’insegna della totale trasformazione dell’originaria comunità cinese di Milano. E’ persino dubbio che di “comunità” si possa ancora parlare, visto l’alto grado di stratificazione interna e di eterogeneità delle condizioni e delle aspirazioni dei nuovi immigrati stabilitisi nella città.

L’ Associazione Cinesi in Milano, erede dell’associazionismo comunitario delle origini, legato alle famiglie di più antica tradizione immigratoria e al mondo dell’imprenditoria etnica, non sembrò essere più in grado di interpretare appieno le esigenze dei cinesi di Milano, né tantomeno di pilotare o dirigere in qualche modo l’evoluzione delle dinamiche economiche e sociali della nuova popolazione cinese della città.
Gli immigrati crebbero così rapidamente da scardinare i tradizionali meccanismi di accoglienza e inserimento socio-economico tipici dei primi anni ottanta.

Si vengono infatti a creare tensioni all'interno della comunità, composta in misura preponderante da giovani coppie e dai loro figli, che non ha più nulla a che vedere con il microcosmo a prevalenza maschile delle origini. Tensioni non solamente per la sfera economica, ma riconducibili ad una varietà di fattori, da quelli che afferiscono alla vita familiare, come il forte gap culturale tra genitori e figli o lo stravolgimento di consolidati modelli di vita di coppia, a quelli propri della contiguità di gruppi dialettali diversi e, talvolta, rivali.

Tale afflusso di nuovi immigrati ha cambiato in modo tangibile gli equilibri che si erano venuti a creare nel contesto più "rarefatto" degli anni precedenti. La preminenza massiccia acquisita in termini numerici dai cinesi di Wencheng nella comunità cinese milanese influisce considerevolmente sui caratteri che quest'ultima va assumendo negli ultimi anni. Il dialetto di Wencheng è diventato la "lingua franca" cinese più diffusa nella città, ed il fatto che il distretto di provenienza sia una delle aree meno sviluppate dell'entroterra di Wenzhou spiega anche i bassi tassi di alfabetizzazione ed in genere l'arretratezza culturale dei nuovi immigrati.


Nuovi scenari sociali e culturali della Chinatown Milanese
L’ampia percentuale di immigrati in età prescolare e scolare degli anni più recenti, fa prevedere una revisione di alcune fasi del progetto migratorio originale.

Se è probabile che la decisa propensione al lavoro autonomo rimarrà anche in futuro uno dei tratti distintivi di questa comunità, è difficile invece immaginare che le centinaia di giovani cinesi che oggi vengono socializzati e formati nell’ambito delle istituzioni scolastiche italiane possano essere ricondotti all’interno degli antichi schemi di una carriera migratoria che ormai più non gli appartiene.

Ne sono prova i figli dei primi “nuovi arrivati”, giunti a Milano nel corso della prima metà degli anni ottanta e formati almeno in parte nella scuola italiana. Abbandonato il pensiero di un futuro ritrasferimento in Cina, per i giovani cinesi che hanno conservato la capacità di usare la lingua cinese (almeno quella parlata) oltre al dialetto e nel contempo hanno saputo inserirsi nel contesto economico e sociale italiano, l'universo di riferimento reale è ad un tempo quello della società ospite.

Il ritmo dei nuovi arrivi è oggi forse meno incalzante che in passato, ma il flusso in entrata non cessa, e sarebbe imprudente parlare di inversione di tendenza. La vecchia comunità cinese, costituita in prevalenza da cinesi di Qingtian immigrati nel corso degli ultimi trent'anni, è stata sommersa dai grandi numeri delle ondate migratorie più recenti.

I "vecchi cinesi" parlano spesso della differenza tra la comunità unita e solidale degli anni sessanta e settanta e quella di oggi, più eterogenea e conflittuale. Le reti di solidarietà che contraddistinguevano la comunità negli “anni d’oro” si sono allentate e si ha l'impressione che i sistemi tradizionali di mutuo aiuto e di gestione del disagio siano entrati in crisi.

I nuovi venuti sono più giovani e meno disposti a “mangiare amaro”, hanno aspettative maggiori rispetto ai loro predecessori. Sono più coraggiosi nel tentare nuove carriere, magari anche al di fuori dei circuiti dell’economia etnica, ma nel contempo anche più ansiosi e sprovveduti. Molti di loro hanno lasciato piccoli paesini di montagna per trovarsi catapultati direttamente a Milano, una Milano che conoscevano soltanto attraverso il racconto dei rimpatriati, quelli che "ce l'hanno fatta”. Al loro arrivo in Italia trovano spesso solo insicurezza, frustrazione e ore su ore di lavoro mal pagato. La disillusione è immediata, la delusione pesante: ma non c'è modo di tornare indietro e per tirarsi fuori dai debiti e salvare la faccia bisogna lavorare duro e vivere in condizioni a volte molto peggiori di quelle di partenza.

Nella comunità cinese attuale convivono mondi ormai diversissimi tra loro:

· gli ultimi pochi superstiti dei nuclei originari, anziani gentiluomini cinesi che godono tuttora di notevole rispetto tra gli immigrati; alcuni tra loro hanno passato la novantina
· i figli di sangue misto dei primi immigrati, oggi ultracinquantenni, che nella stragrande maggioranza dei casi si sono del tutto integrati nella società ospite, sposandosi con italiani; tuttavia molti di loro mantengono ancora legami importanti con l’establishment originario della comunità
· i gruppi familiari installatisi nella città nel corso degli anni settanta e nei primi anni ottanta, che furono i motori principali dei flussi successivi: comprendono genitori quarantenni, figli ventenni (nati e scolarizzati sia in Cina che in Italia) e nipotini (nati in Italia)
· i nuclei familiari di più recente immigrazione, non necessariamente legati alle catene migratorie originarie, e i loro figli (nella maggioranza dei casi nati e scolarizzati - uno o due anni di elementari - in Cina)
· un numero crescente di “battitori liberi”: giovani giunti a Milano sulla scorta di deboli legami amicali o parentali, spesso alla cieca, spinti più dalla curiosità che dal bisogno; migranti di altre zone, del tutto estranee alla tradizione migratoria milanese


Ma-Jong e ritrovi cinesi
A causa della difficile integrazione, per quei tempi, ed anche per favorire momenti di più intensa “aggregazione”, già negli anni ‘40 furono costituiti “Centri di Ritrovo” esclusivi per la comunità cinese.

Dopo avere per lungo tempo utilizzato come base i Bar di Via Canonica, si sentì la necessità di avere spazi ed ambienti più confacenti, più adatti alla mentalità cinese, soprattutto dove si potesse “parlare” esclusivamente cinese. Si trattava, per lo più, di semplici “stanzoni”, a fianco o addirittura all’interno dei loro laboratori artigianali (allora ancora non esistevano i Ristoranti...), dove i Cinesi di Milano, ma anche quelli di altre città, potevano liberamente “ritrovarsi”.

In queste sedi si potevano leggere giornali, riviste cinesi, commentare e discutere gli eventi della madre-patria, discutere delle situazioni commerciali in Italia, delle esperienze fatte, delle problematiche affrontate, scambiare opinioni. Per taluni era il luogo ove farsi “tradurre” o leggere lettere giunte dai parenti rimasti in Cina.

Il passatempo preferito era, ovviamente, il “Ma-Jong”, inizialmente considerato un momento di divertimento festivo ma, ben presto divenuto per molti “vizio”, causa di critiche situazioni economiche ed, anche, familiari. Da passatempo della Domenica pomeriggio, si trasformò in occasione di ogni sera. I debiti ed i crediti, in ogni caso, venivano “regolati” direttamente alla fine di ogni partita, alle volte con impegni “a lungo termine”.

Il gioco era appassionante, reso poi ancor più interessante dalla presente, intorno ai tavoli, di molti curiosi, in attesa di “prender posto” alla successiva partita. In detti locali, fumosi e rumorosi, era poi sempre attiva, in tutte le ore del giorno, una tipica “cucina cinese”, che offriva la opportunità di mangiare secondo la tradizione.

Si può considerare che il “centro” più noto e frequentato sin dagli anni ‘50, denominato “il 35”, fosse ubicato nella Piazza Morselli, a metà della Via Canonica, all’interno di un vecchio stabile con cortile. Tutti i frequentatori più assidui ben presto venivano dotati delle chiavi di accesso.

Negli anni ‘70, poi, la base principale venne trasferita alla fine della stessa Via, verso la Paolo Sarpi, dove non era insolito incontrare ai tavoli da gioco molti Italiani, prima compagni di “scopa d’assi” e poi avversari da spennare al Ma-Jong.
Solo verso la fine degli anni ‘80 tale situazione é andata affievolendosi, sino a sparire, lasciando il posto a più semplici e riservate iniziative personali e/o familiari.
I Bambini Cinesi dei primi immigrati
Quasi nessuno dei figli dei primi immigrati cinesi ha appreso dai Padri la Lingua cinese; i matrimoni di norma avvenivano con donne italiane e quindi in Famiglia si parlava solamente italiano.

Si deve annotare che, nel 1955, fu avviato un tentativo di “scolarizzazione cinese”, con lo scopo primario di insegnare la lingua, ma anche di trasferire i concetti e le tradizioni della madre patria Cina. La lodevole iniziativa, a carico di due Sacerdoti Cattolici Cinesi, dopo un anno di pur efficace “scuola”, ben presto cessò di essere attiva, anche a causa della ridotta frequentazione che si generò: i bimbi erano tutti di età compresa tra i 7 ed i 12 anni, già impegnati nella Scuola tradizionale italiana e, spesso, impegnati al pomeriggio nei laboratori artigianali, per aiutare il lavoro dei genitori.

Altra iniziativa importante, e di lunga durata (almeno 10 anni), furono le Colonie estive per Cinesi, sempre organizzate da religiosi. Tra Luglio ed Agosto di ogni anno si “partiva” per destinazioni marine e montane, ospitati in strutture di Istituti religiosi o, alle volte, direttamente affittate dalla comunità cinese.

Il principale fautore di tali iniziative per i figli dei Cinesi fu un Missionario di nome “Padre Yuan”, morto nel 1976, succesivamente coadiuvato da Don Andrea Tsien, qust’ultimo per lungo tempo sacerdote nella Parrocchia della S.S.Trinità, considerata la Chiesa dei “Cinesi di Milano” , ed ora Vescovo della città di Hualien, a Taiwan.